La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34793 del 10 agosto 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in ordine al reato di diffamazione (art. 595 codice penale) e alla sua punibilità nel caso in cui le offese siano perpetrate nel corso di un’udienza.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale, in riforma della sentenza di primo grado, emanata dal Giudice di Pace, aveva assolto un’imputata per il reato di cui sopra, “perché il fatto non costituisce reato”.
In particolare, all’imputata era stato addebitato il reato di diffamazione per avere nel corso di un’udienza dinanzi al Giudice di Pace, “proferito più volte epiteti del seguente tenore ‘malato mentale, drogato, alcolizzato’, così offenendo la reputazione” dell’ex marito.
L’ex marito, ritenendo la sentenza di assoluzione ingiusta, proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando la contraddittorietà e illogicità della motivazione della pronuncia, la quale non aveva in alcun modo tenuto in considerazione le dichiarazioni della persona offesa, malgrado le stesse fossero state rese in presenza del difensore prima di iniziarne la verbalizzazione in forma riassuntiva.
Secondo il ricorrente, in particolare, il Tribunale avrebbe errato nel ritenere inutilizzabili tali dichiarazioni, dal momento che “la sanzione dell’inutilizzabilità attiene alle prove acquisite nel corso di un processo e non ai verbali (atti pubblici) dai quali consti la commissione di reati”.
Evidenziava il ricorrente, inoltre, la condotta tenuta dall’imputata non appariva in alcun modo giustificabile, tanto che il giudice era stato costretto “ad invitarla ad uscire dall’aula, evidentemente non riuscendo a contenere le intemperanze della stessa”.
Allo stesso, modo, secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe errato nel ritenere insussistente l’elemento soggettivo del dolo, se si considera che “l’imputata era andata in escandescenze, aveva iniziato ad inveire contro il (…), aveva costretto il giudice a disporne il bonario allontanamento e aveva mostrato un coerente impeto offensivo esclamando ‘vergognatevi’ uscendo dall’aula”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, risultava in maniera pacifica che le frasi offensive erano state pronunciate dall’imputata in occasione di un’udienza, “nell’ambito di un processo penale nel quale la suddetta ricorrente era imputata e l’ex coniuge era persona offesa”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, il giudice di appello aveva correttamente ritenuto che la condotta dell’imputata fosse stata posta in essere “in un’ottica prettamente difensiva”.
Osservava la Corte, peraltro, come risultasse altrettanto pacifico che vi era una forte conflittualità tra l’imputata e il ricorrente e che le frasi offensive erano state pronunciate dalla donna durante il suo esame dibattimentale, “quando aveva perso il controllo nel rispondere alle domande sui fatti oggetto del processo penale e riguardanti sempre i rapporti problematici con l’ex marito”.
Di conseguenza, la Corte di Cassazione riteneva che, nel caso di specie, potesse trovare applicazione la causa di non punibilità di cui all’art. 598 codice penale, la quale esclude, appunto, la punibilità “delle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie e amministrative”.
Tale disposizione, precisava la Corte, è, infatti, “funzionale al libero esercizio del diritto di difesa, che, come noto, è circoscritta all’ambito del giudizio ordinario ed amministrativo nel corso del quale le offese siano proferite, e a condizione che siano pertinenti all’oggetto della causa o del ricorso amministrativo”.
In conclusione, dunque, la Cassazione rilevava come il giudice di secondo grado non avesse affatto errato nell’assolvere l’imputato “perché il fatto non costituisce reato”, dal momento che tale formula trova applicazione anche in presenza di una causa di non punibilità.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Fonte: Brocardi.it
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