La vicenda giudiziaria ha ad oggetto l’infortunio occorso ad un minore che, sbilanciato mentre sedeva su uno sgabello, a causa dell’impetuosità ed imprudenza del suo compagno di giochi, cadeva rovinosamente a terra, riportando lesioni al gomito. I genitori del danneggiato agivano in giudizio, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni occorso al minore nei confronti dei genitori del danneggiante. Questi ultimi erano ritenuti responsabili exart. 2048 del c.c., per non aver impartito una idonea educazione al proprio figlio. I convenuti resistevano in giudizio ritenendo l’evento non imputabile al di loro figlio o alla loro negligenza, ma frutto di caso fortuito.
Il Giudice del merito, investito della cognizione della questione, ha premesso che il fatto storico, come evidenziato nella ricostruzione di parte attrice, è da ritenersi provato, posta la mancata contestazione di questo da parte dei convenuti e la loro generica riconduzione del sinistro al caso fortuito. Il Tribunale, inoltre, ha richiamato il quadro normativo di riferimento, da rinvenirsi negli artt. 2048 e 2047 c.c. Mentre la prima norma sulla responsabilità dei genitori prevede una presunzione di difetto di educazione, la seconda, che inerisce ai danni cagionati da minore incapace di intendere e di volere, richiama una presunzione di difetto di sorveglianza e vigilanza. L’applicazione dell’una o dell’altra norma al caso concreto “ruota intorno alla possibilità di riconoscere in capo al minore danneggiante la capacità di intendere e di volere di cui all’art. 2046 c.c. e, con essa, il presupposto per l’imputazione della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.” .
Spetta, dunque, in ambito civile, al giudicante il compito di accertare tale capacità in capo al minore danneggiante, con la precisazione che “il giudice di merito non è tenuto a compiere una indagine tecnica di tipo psicologico quando le modalità del fatto e l’età del minore siano tali da autorizzare una conclusione in un senso o nell’altro” (Cass., n. 23464/2010).
Nella fattispecie il Tribunale ha riconosciuto la capacità di cui sopra, stante l’assenza di allegazione agli atti di elementi idonei ad escludere il normale sviluppo psicofisico del minore tredicenne. Alla luce delle evidenze probatorie, il fatto del minore è riconosciuto, ex art. 2043 c.c., come un fatto colposo, recante un danno ingiusto e di cui sono stati provati il danno (alla salute), nonché il rapporto di causalità tra condotta del danneggiante e fatto dannoso. Se la responsabilità, allora, dell’autore materiale va ricondotta all’art. 2043 c.c. citato, quella dei genitori trova fondamento, nell’art. 2048 c.c. citato, quale responsabilità, diversamente da quanto appare prima facie dalla norma, “diretta e per fatto proprio”.
Il comportamento richiesto, assente nel caso concreto, deve caratterizzarsi per il rispetto dei precetti di cui all’art. 147 c.c. (doveri verso i figli). La presunzione di cui all’art. 2048 c.c., allora, può essere vinta solo allorquando il genitore dia una rigorosa dimostrazione dell’osservanza dei suddetti precetti (mantenere, istruire ed educare i figli). Da qui il necessario esercizio, da parte loro, di un’attività di vigilanza.
Come ha evidenziato il Giudice, si hanno inevitabilmente dei riflessi in tema di onere probatorio, essendo i genitori a doversi liberare da tale presunzione; sul danneggiato incombe solo l’onere di provare che il fatto sia stato commesso dal minore, nonché il danno subito. Richiamando la giurisprudenza di legittimità maggioritaria, si è affermato, peraltro, che “l’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore può essere ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 c.c.” (Cass., n. 20332/2005).
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