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La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio dagli atti di violenza domestica posti in essere dal marito, che condussero all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie.

I giudici di Strasburgo, la cui sentenza diverrà definitiva fra 3 mesi se le parti non faranno ricorso, hanno stabilito che «non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio».

La Corte ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione) della convenzione europea dei diritti umani. I giudici hanno riconosciuto alla ricorrente 30mila euro per danni morali e 10mila per le spese legali.

Si tratta della prima condanna dell’Italia da parte della Corte per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica. Il caso si riferisce a quanto avvenuto a Remanzacco, in provincia di Udine, il 26 novembre del 2013 quando il marito – ora in prigione – di Elisaveta Talpis uccise il figlio diciannovenne e tentò di uccidere anche la madre. Tutto avvenne dopo che la signora aveva denunciato il marito e dopo ripetute richieste di intervento rivolte alle autorità anche da parte dei vicini.

La sentenza della Corte dei diritti dell’uomo

Dopo che la signora Talpis aveva presentato la sua denuncia, il 5 settembre 2012, per la violenza continuamente subìta dal marito, sottolineando una forte preoccupazione per il figlio e per la sua stessa vita, le autorità nazionali non avevano emesso alcun ordine di protezione, e la signora era stata interrogata soltanto 7 mesi dopo la denuncia. Un ritardo, osserva la Cedu, che ha privato la ricorrente di protezione immediata. Le autorità nazionali avrebbero dovuto tener conto della situazione di grande insicurezza e vulnerabilità della ricorrente. Omettendo di intervenire rapidamente, invece, hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha favorito il ripetersi degli atti di violenza.

Ed anche se la polizia era intervenuta due volte durante la notte, non aveva però preso alcuna misura per fornire una adeguata protezione alla vittima. E, in considerazione della possibilità della polizia di fare controlli in tempo reale sulla fedina penale del marito, la Corte ha ritenuto che la polizia non poteva escludere l’imminente esecuzione della minaccia.

Accuse cui in serata ha in qualche modo replicato il procuratore di Udine Antonio De Nicolo, che all’epoca dei fatti non era alla guida dell’ufficio friulano ma coinvolto successivamente dal ministero della Giustizia per fornire osservazioni a sostegno delle tesi del Governo. De Nicolo sottolinea che la donna aveva sì presentato denuncia, ma poi si era allontanata dal centro antiviolenza; inoltre, all’archiviazione dell’accusa di maltrattamenti si arrivò anche per una sorta di ridimensionamento dei fatti da parte della donna.

Fonte: Il Sole 24 ore

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