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Tribunale, Torino, sez. III penale, sentenza 18/05/2016

All’attenzione della Tribunale di Torino il caso di una coppia omosessuale che, dopo essersi trasferita all’interno di un condominio, è stata sottoposta a perduranti ed umilianti condotte minacciose e denigratorie da parte di tutto il condominio e, in particolare, da uno dei condomini che è stato rinviato a giudizio e condannato nel procedimento in oggetto.

Partendo dall’analisi delle condotte addebitate al condomino imputato, il Giudice opera un’interessante ed approfondita analisi della natura del reato di cui all’art. 612 bis c.p. e delle modalità attraverso le quali tale fattispecie può essere integrata.

Il caso affrontato dalla sentenza in oggetto si inserisce nella categorie dei cd. “crimini d’odio”, ovvero quei reati che scaturiscono da situazioni di intolleranza o di discriminazione.

Pur non esistendo in Italia una legislazione specifica anti-omofobia (la cd. “Legge Mancino”, ovvero la legge 25 giugno 1993, n. 205 riguarda specificamente profili razziali e politici), infatti, nell’opinione del giudice le condotte contestate all’imputato sono riconducibili ad un’evidente omofobia (“condivisa” dalla quasi totalità dei condomini) resasi manifesta attraverso condotte intimidatorie, umilianti e minacciose ai danni di una giovane coppia omossessuale che si era trasferita nel condominio dell’imputato.

Come evidenziato in sentenza, infatti, la quasi totalità dei condomini ha, in diverse occasioni, avallato la condotta dell’imputato a volte solo implicitamente (la decisione di estromettere la coppia dal condominio), altre volte in modo esplicito, contribuendo ad accrescere il clima “persecutorio” instaurato dall’imputato.

Allo stesso tempo, come si evince esplicitamente dalle premesse della sentenza, tutte le condotte poste in essere da soggetti non identificati e addebitabili, genericamente, al “condominio”, non sono state prese in considerazione in quanto “oggetto del processo (e della presente motivazione) non sono le ragioni condominiali del contrasto, né il generale clima intimidatorio instaurato contro i due conviventi, anche in ragione della loro omosessualità, ma i comportamenti esclusivamente addebitati all’imputato (per come descritti nel capo d’imputazione) e la loro qualificazione in termini di atti persecutori”.

Fatta questa necessaria distinzione (necessaria per non addebitare all’imputato M. anche fatti riconducibili ad un generale clima intimidatorio riconducibile, generalmente, al condominio), il Giudice ha quindi ritenuto sussistente la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. contestata al condomino M. per avere, con condotte reiterate e intimidatorie, minacciato e molestato B. ed N. (legati da un vincolo affettivo).

Partendo dall’analisi delle singole condotte contestate ad M., il Giudice ha operato una approfondita analisi sulla natura della fattispecie di atti persecutori, sulle modalità attraverso le quali il reato può essere configurato e sulla ratio della norma.

Tale analisi merita particolare attenzione perché, pur non rivestendo sostanziale carattere di novità, opera un’efficace sintesi dell’evoluzione giuridica e giurisprudenziale della norma in parola e, contestualmente, ne traccia i confini in modo da offrire una panoramica della fattispecie di atti persecutori non limitata al solo caso concreto.

In prima battuta, il Giudice, dopo un’esposizione delle tappe che hanno contraddistinto il travagliato iter che ha portato all’attuale formulazione del reato di atti persecutori, pone subito l’accento sulla natura “plurioffensiva” della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.

Secondo il Giudice, infatti, “Il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è da ritenersi plurioffensivo; esso, infatti, tutela non solo la libertà morale della persona, ma, anche, la tranquillità della stessa, e vorremmo dire la “serenità psicologica””.

A conferma di tale natura, il Giudice evidenzia che è proprio la struttura della norma a prevedere una serie di eventi (alternativi) necessari per la configurabilità del reato in parola che sono, indiscutibilmente, ricollegabili al concetto di “salute psico-fisica” della vittima.

In sentenza di evidenzia, infatti, che “La fattispecie in esame, inoltre, tutela anche la salute psico-fisica della vittima; tale assunto è confermato dal dettato normativo dell’art. 612 bis c.p., il quale richiede, tra le varie ipotesi, che la condotta sia realizzata in modo da cagionare un grave stato di ansia e di paura. La tutela penale, infine, si spinge sino ad includere i beni giuridici della vita e dell’incolumità individuale, visto che la condotta dello stalker può essere tale da ingenerare nella vittima un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva e visto che, non di rado, lo stalking si manifesta come un “crescendo”, che, partendo da episodi innocui, può sfociare nella violenza, fino, seppur non frequentemente, in brutali omicidi”.

Tale premessa appare di centrale importanza per comprendere la struttura della norma e rappresenta la chiave di volta per l’interpretazione che, nel corso degli anni, la giurisprudenza ha fornito ai singoli elementi presi in considerazione dall’art. 612 bis c.p..

Come è noto, infatti, ai fini della configurabilità del reato, la condotta molesta posta in essere dall’agente deve provocare, come conseguenza diretta, uno degli “eventi” previsti dall’art. 612 bis c.p., ovvero “un perdurante e grave stato di ansia o di paura”, l’aver ingenerato “un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva” e aver costretto la vittima ad “alterare le proprie abitudini di vita”.

Tali eventi sono, come è noti, alternativi, nel senso che, come evidenziato da unanime giurisprudenza di legittimità, è necessario che se ne verifichi solo uno.

Nel caso in esame, però, il Giudice ha evidenziato come tutti e tre gli eventi previsti dalla norma si siano verificati in concreto.

Il Giudice, infatti, ha osservato che “nel caso di specie la verificazione di tutti e tre gli eventi non può essere messa in discussione alla luce delle testimonianze rese, della documentazione versata in atti e, in definitiva, dall’epilogo della vicenda, che si è concluso con la effettiva estromissione della coppia dal contesto condominiale (e addirittura con la rottura del rapporto all’interno della medesima)”.

In particolare, nella sentenza si è sostenuto che:

  • dalla testimonianza delle persone offese emergerebbe, in modo palese, l’esistenza di un perdurante stato d’ansia generato dal clima di intolleranza percepibile all’interno del condominio e reso ancora più insostenibile dalla condotta di M. Tale stato d’ansia sarebbe quindi configurato in quanto, secondo costante giurisprudenza, “Ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori […]abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” [Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 2 maggio 2011, n. 16864];
  • la paura per la propria incolumità o per quella di un prossimo congiunto è sicuramente integrata dalle minacce profferite dal condomino M. (che si inseriscono sempre in un clima di generale intolleranza) e dalla aggressione subita da N., compagno di B. Il Giudice, inoltre, ha correttamente (ed ovviamente) evidenziato che “Per ciò che attiene, infine, al significato della locuzione «persona legata da relazione affettiva», si ritiene che la stessa debba essere intesa nel senso più ampio possibile, senza astratte delimitazioni temporali, sessuali o di “rilevanza” del coinvolgimento sentimentale, dunque anche a prescindere dal rapporto di convivenza o di stabilità del rapporto medesimo, che, oltre a non consentire un’adeguata protezione dei beni giuridici che la norma intende tutelare, avrebbero il limite di confinare il rapporto penalmente rilevante in categorie completamente avulse dall’esperienza affettiva, con l’ulteriore effetto negativo di restringere gli ambiti della tutela in modo del tutto arbitrario”. Tale precisazione appare di grande rilevanza in quanto, in ossequio alla natura stessa del norma e della sua ratio, il Giudice ha evidenziato come il concetto di “relazione affettiva” non possa essere limitato, arbitrariamente, in ragione di preferenze sessuali e modalità di espressione del rapporto sentimentale, ma debba essere inteso “nel senso più ampio possibile” in modo tale da tutelare la “serenità” della vittima di condotte persecutorie;
  • con riferimento alla modifica delle proprie abitudini di vita, l’epilogo della vicenda (l’estromissione dal condominio) e l’installazione, riportata nel capo di imputazione, di una grata a difesa della propria porta e di una telecamera di sicurezza, non lasciano spazio a molte interpretazioni. Tali azioni a tutela della propria integrità, diretta conseguenza delle condotte intimidatorie poste in essere da M., integrano anche il terzo evento prescritto dalla norma in quanto, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, costituiscono un “mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima, come nel caso in esame, dalla condotta persecutoria altrui” (Cass. Pen. Sez. V, sentenza 15 maggio 2013, n. 20993).”

Sulla base di tali elementi, le reiterate minacce ed intimidazioni poste in essere dal condomino M. sono state ritenute più che sufficienti ad integrare, sotto un profilo oggettivo, la fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.

Allo stesso modo, sotto un profilo soggettivo, il reato è stato ritenuto ugualmente integrato sia in considerazione della punibilità dello stesso per “dolo generico”, sia in considerazione della consapevolezza, da parte di M., del clima di generale intolleranza nel quale le sue condotte si inserivano.

Precisa, infatti, il giudice che la “consapevolezza nell’imputato era ampiamente radicata, tenuto anche conto delle complessive vessazioni subite dalla coppia nel contesto condominiale, di cui M. era sicuramente cosciente; deve, inoltre, considerarsi che dalle predette vessazioni derivava una maggiore fragilità delle vittime, già provate dal clima omofobo instauratosi, e quindi una ben più incisiva forza intimidatrice dei comportamenti dall’imputato tenuti, con rafforzamento degli effetti in termini di perdurante e grave stato di ansia e di paura, fondato timore per l’incolumità propria e del proprio compagno, costrizione della vittima ad alterare le proprie abitudini di vita, fino all’abbandono forzato dell’appartamento”.

Fonte: Altalex

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