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(Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale, Sentenza 22 novembre 2016, n. 49597)

La Corte di Cassazione è torna a pronunciarsi sulla definizione degli elementi costitutivi del reato di violenza sessuale, affermando il principio innovativo secondo il quale affinché si possa considerare integrato il reato di cui all’articolo 609-bis del Codice Penale non si richiede da parte dell’agente un’azione violenta, né un effettivo dissenso da parte della persona offesa, ma la semplice mancanza di consenso all’approccio sessuale da parte di quest’ultima.

Il caso in esame

A seguito della dichiarazione di penale responsabilità da parte della Corte territoriale in ordine al reato di cui all’articolo 609-bis del Codice Penale, che riformava solo sul quantum della pena la sentenza di primo grado, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, affidandolo a tre motivi di doglianza, incentrati sulla ricostruzione della figura delittuosa di specie.

In particolare, l’imputato riteneva che ai fini della condotta di cui all’articolo 609-bis del Codice Penale fosse necessario un inequivoco e manifesto dissenso della persona offesa ai contatti sociali dell’agente, nonché la consapevolezza in capo a quest’ultimo del dissenso della persona offesa all’approccio sessuale, in assenza del quale verrebbe meno il dolo (necessario per il configurarsi del reato di violenza sessuale, non sussistendo nel nostro ordinamento alcuna fattispecie incriminatrice della violenza sessuale colposa), versandosi in una situazione di errore sul fatto, non punibile ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del Codice Penale.

La decisione della Suprema Corte

Al fine di apprezzare la portata dirompente di questa pronuncia, è sufficiente richiamare in questa sede la formulazione letterale della norma incriminatrice, ossia dell’articolo 609-bis del Codice Penale, il cui primo comma così statuisce: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.

Preliminarmente, i giudici di legittimità hanno ritenuto condivisibile la ricostruzione del reato in questione proposta dal prevenuto, secondo il quale: “a differenza di quanto concerneva la impalcatura del reato di violenza carnale quale era stato concepito ed espressamente formulato nell’abrogato art. 519 cod. pen. della originaria compilazione codicistica, nel quale sotto il profilo materiale la nozione di violenza necessaria per la integrazione del reato doveva essere intesa nel senso prevalentemente materiale consistente nell’uso della forza volta a vincere la resistenza della parte offesa al raggiungimento della congiunzione carnale, secondo l’impianto normativo scaturito, invece, dalla riforma del 1996, il fulcro attorno a cui ruotano i fattori idonei a realizzare la fattispecie penalmente rilevante di violenza sessuale è costituito dalla violazione della sfera di libera autodeterminazione che l’ordinamento assicura all’individuo nell’ambito della propria intimità sessuale”.

Diversamente, non condivisibile risulterebbe l’assunto che: “affinché la condotta di intromissione dell’agente nella sfera di intimità sessuale della persona offesa acquisti rilevanza penale, sarebbe necessaria non tanto la mancanza di consenso da parte della persona offesa quanto la esistenza di un dissenso, inequivocamente manifestato dalla medesima persona offesa e come tale percepito dall’agente, a tale intromissione”.

Tale valutazione, secondo i giudici di Cassazione, si porrebbe in netto contrasto con la lettera della norma e con lo spirito della riforma del 1996, al riguardo rilevando “come non sia ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito della entrata in vigore della legge n. 66 del 1996 […], un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenere perfezionati gli elementi costitutivi del reato stesso, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale; si deve, piuttosto, ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”.

Peraltro, hanno ritenuto i giudici di legittimità, “seguendo quella che appare essere la linea interpretativa del ricorrente, non commetterebbe il reato di violenza sessuale chi approfittasse sessualmente di soggetti che – senza volere scomodare esempi tratti da un famoso racconto della letteratura germanica protoromantica – usasse violenza in danno di persona dormiente ovvero, comunque, in stato di incapacità, anche transitoria, ad esprimere il proprio dissenso alla disposizione del bene – interesse tutelato dalla norma”.

La fattispecie si intenderebbe, pertanto, perfezionata “non solo, e non tanto, in quanto, rispetto alla parte offesa, la condotta criminosa sia posta in essere contra voluntatem quanto allorché essa è realizzata praeter eius voluntatem”,

La Corte di Cassazione ha, per questi motivi, rigettato il ricorso proposto dal prevenuto, sostenendo che, “ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in questione, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo del reato al compimento degli atti sessuali a suo carico, essendo irrilevante, pertanto, l’errore sull’esistenza o meno della espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo, semmai, fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo, solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa”. Sciacca Studio Legale

Fonte: Filodiritto

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