Non commette il reato di diffamazione chi dà dell’omosessuale ad un’altra persona.
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12 Dicembre 2016La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50329 del 28 novembre 2016, si è occupata di un interessante caso di uccisione di animale (art. 544 bis cod. pen.) e di porto fuori dalla propria abitazione di un puntale in ferro (art. 699 cod. pen.).
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’Appello di Firenze, aveva confermato la penale responsabilità di un imputato per i reati di cui sopra, con la conseguenza che l’imputato aveva provveduto a proporre ricorso per Cassazione.
L’imputato, in particolare, era stato condannato per aver portato fuori dalla propria abitazione un puntale in ferro, con il quale aveva ucciso, asseritamente senza valido motivo, il cane alano di un altro soggetto, sferrandogli un colpo al di sopra della zampa anteriore sinistra.
Secondo la ricostruzione dei fatti del ricorrente, tuttavia, il grosso animale non era, nel frangente, tenuto al guinzaglio, bensì libero e senza museruola. Il medesimo si era, poi, avvicinato al cane di piccola taglia del ricorrente, aggredendolo e mordendolo vicino alla coda, procurandogli alcune ferite. Di conseguenza, la reazione del ricorrente era stata pienamente giustificata in ragione dell’aggressione.
La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la punibilità del reato doveva escludersi in ragione dello “stato di necessità” in cui si era trovato il ricorrente.
Precisava la Cassazione, in proposito, come “la situazione di necessità che esclude la configurabilità del delitto di danneggiamento o uccisione di animali altrui ex art. 638 c.p. comprende non soltanto la necessità di cui all’art. 54 c.p., ma anche ogni altra situazione che induca all’uccisione o al danneggiamento dell’animare per prevenire o evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno giuridicamente apprezzabile alla persona propria o altrui o ai propri beni quando tale danno l’agente ritenga altrimenti inevitabile”.
Evidenziava la Cassazione, pertanto, come dovesse ribadirsi il principio per cui lo stato di necessità si applica anche al reato di uccisione di animali di cui all’art. 544 bis c.p., ipotesi che la Corte d’appello aveva erroneamente escluso, nonostante nell’atto di appello alla sentenza di primo grado fosse chiaramente precisato che l’imputato aveva agito al solo fine di difendere sé stesso e il proprio cane dall’aggressione dell’alano.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, la decisione di condanna resa dalla Corte d’appello appariva ingiusta ed illogica, dal momento che la Corte non aveva adeguatamente contestualizzato l’aggressione dell’imputato, il quale aveva agito in considerazione del percepito pericolo per sé e per il proprio cagnolino.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima riesaminasse la questione, alla luce dei principi sopra esposti.