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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15596 del 27 luglio 2016, si è occupata di un interessante caso in materia di diritto del lavoro, sebbene con riferimento ad un “lavoro” molto “particolare”.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Guardia di Finanza aveva effettuato una verifica fiscale nei confronti di una donna che, “pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi (tranne che per l’annualità 2003), risultava intestataria di numerose autovetture anche di lusso, acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare”.

Dagli accertamenti bancari effettuati, la donna risultava, inoltre “intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali”.

A seguito dei controlli, l’Agenzia delle Entrate emetteva un avviso di accertamento e “recuperava a tassazione ai fini Irpef un reddito imponibile di Euro 29.240”.

La donna impugnava l’avviso di accertamento, “sostenendo la non tassabilità dei redditi accertati in quanto provento dell’attività di prostituzione dalla stessa esercitata”.

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo “riconosceva rilevanza reddituale ai proventi dell’attività di meretricio” ma ritenendo che “essi fossero soltanto quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante assegni”.

In sede di appello, il giudice “confermava che i proventi dell’attività di prostituzione dovevano essere compresi nella categoria residuale dei “redditi diversi” quale prestazione volontaria di un servizio dietro corrispettivo”, ritenendo corretta la rettifica del reddito effettuata dall’Agenzia delle Entrate, in base a quanto previsto dall’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.

Giunti in Cassazione, la donna evidenziava come non esista una norma tributaria che preveda la tassazione dei redditi da prostituzione e come tali proventi non possano considerarsi illeciti.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla ricorrente, evidenziando come “il Testo Unico delle imposte sui redditi non contiene una definizione unitaria del concetto di “reddito”, ma prevede varie categorie reddituali, il cui elemento comune è costituito dalla derivazione del reddito da una fonte produttiva”.

Peraltro, “la categoria dei redditi elencata del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 6, è stata ampliata della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, secondo cui i proventi derivanti da illecito civile, penale o amministrativo (che non siano già stati interamente sottratti al possessore a mezzo di provvedimento di sequestro o confisca penale) sono sottoposti a tassazione in quanto classificabili in una delle categorie reddituali previste dal citato art. 6”.

Di conseguenza, “la natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità quali “redditi diversi”, comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sè priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione (art. 2035 c.c.))”.

Evidenziava la Corte, inoltre, come “la tassabilità dei proventi dell’attività di prostituzione è stata avallata a livello comunitario dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee con la sentenza del 20.11.2001, causa C-268/99, in cui ha affermato che ‘la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economiche’, e che ‘spetta al giudice nazionale accertare, caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolto come lavoro autonomo’, ossia al di fuori di fenomeni di induzione, costrizione o sfruttamento della prostituzione altrui (i cui proventi, prima ancora che assoggettabili ad imposta, sono interamente confiscabili quali provento di reato a norma dell’art. 240 c.p., comma 1)”.

Nel caso in esame, pertanto, il ricorso non poteva essere accolto, in quanto il giudice di secondo grado aveva accertato che la donna, per sua stessa ammissione, “svolgeva liberamente ed autonomamente l’attività di prostituzione, dalla quale erano derivati i proventi risultanti dai conti correnti bancari, con conseguente imponibilità degli stessi, trattandosi di attività assimilabile al lavoro autonomo se svolto in forma abituale, ovvero rientrante nella categoria dei “redditi diversi” ai sensi D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, lett. f e D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67 lett. l, se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: Brocardi.it

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