Corte di Cassazione Penale Sentenza n. 42577/2016
Espressione per taluni del più ampio principio del favor rei, o per talaltri del diritto di difesa di cui la possibilità di impugnare costituisce un’indubbia espressione, il divieto di reformatio in peius è previsto e disciplinato dal 3° comma dell’art. 597 c.p.p. secondo cui il giudice «non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici».
Non poche le questioni inerenti l’applicazione del predetto divieto, risolte od ancora aperte, al vaglio della Suprema Corte di Cassazione.
In primo luogo si era posto il problema se «il divieto di reformatio in peius investisse anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguardasse quindi non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo».
Due sono gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione emersi nel tempo.
Secondo un primo orientamento, più risalente, il divieto della reformatio in peius riguardava soltanto il risultato finale dell’operazione di computo della pena , e non anche i criteri di determinazione della medesima ed i relativi calcoli.
Secondo il più recente e maggioritario orientamento, invece, il su citato divieto di reformatio in peius, in assenza di gravame proposto dal Pubblico Ministero, riguarda non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena, dal che ne deriva l’impossibilità non solo di elevare la pena complessiva, ma anche di elevare l’entità dei singoli addendi oggetto del calcolo della pena.
In tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 40910 del 2005, le quali hanno stabilito che «il divieto di reformatio in peius investe anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguarda non solo il risultato finale di essa, ma tutti gli elementi del calcolo relativo».
Fatte queste dovute premesse, è però un altro il quesito posto alla Suprema Corte di Cassazione ed oggetto del presente commento.
Con sentenza del 15 maggio 2014 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riqualificava nella originaria imputazione di violenza privata il fatto inquadrato dal Tribunale di Viterbo nella fattispecie di cui all’art. 392 c.p.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputata, per violazione dell’art. 597 c.p.p., contestando come la più grave qualificazione giuridica del fatto avesse inciso sulla stessa procedibilità dell’azione penale (da reato procedibile a querela di parte a reato procedibile d’ufficio) e quindi in senso peggiorativo nei propri confronti.
Premesso come “incorre nella violazione del divieto di reformatio in peius anche il giudice che prosciolga l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza impugnata”, i Giudici della Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42577 del 20.07.2016, depositata il 7.10.2016, hanno quindi affermato il seguente principio: “In assenza di impugnazione da parte del P.M., proprio perché la posizione dell’imputato viene ad essere parimenti pregiudicata rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la diversa qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice del gravame dà luogo ad una violazione della reformatio in peius allorquando, per effetto di tale operazione ermeneutica, venga ad essere ritenuto configurabile un delitto procedibile d’ufficio, escluso dal primo giudice, in luogo di uno punibile a querela”.
Ancora una volta risulta quindi affermato e ribadito il principio per cui nell’ambito del processo penale il divieto di reformatio in peius, introdotto dall’articolo 597, co. 3, c.p.p., rappresenta un limite al sindacato del giudice d’appello.
Un’ultima precisazione merita, però, di essere effettuata.
Benchè legislativamente previsto solo con riferimento al giudizio di appello, in quanto non espressamente richiamato dall’art. 627 c.p.p., è però pacifico come tale divieto di reformatio in peius vada applicato anche al giudizio di rinvio.
Sarebbe infatti inconcepibile che proprio in detta fase si potrebbero produrre effetti più gravi per l’imputato, in totale sfregio della tutela del diritto di difesa e dell’osservanza del devolutum.
Fonte: Sentenze Cassazione.com
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