Il fatto
Con provvedimento del 3 dicembre 2014, il Tribunale di sorveglianza di Torino rigettava l’opposizione proposta da Z.A. avverso l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza di Cuneo aveva decretato la sua espulsione dal territorio dello Stato.
Il ricorso
Z.A. proponeva quindi ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino deducendone la illegittimità della decisione per le seguenti ragioni:
– violazione di legge perché non ricorrenti in concreto i presupposti richiesti dall’art. 16 D.Lgs. 286 del 1998 per l’applicabilità dell’espulsione sostitutiva alla detenzione, dovendo operare la condizione ostativa di cui all’art. 19, comma 2 lett. c);
– vizio della motivazione circa l’insussistenza della causa ostativa posto che l’interessato aveva ampiamente documentato di convivere more uxorio con una cittadina italiana.
La decisione della Cassazione
Come noto, l’art. 16 D.Lgs. 286/1998 dispone che il Giudice qualora ritenga di dovere irrogare nei confronti di un cittadino straniero una pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituirla con la misura dell’espulsione dal territorio dello Stato.
Tuttavia, l’art. 19, comma 2, lettera c), D.Lgs. 286/1998 prevede il divieto di espulsione nei confronti degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana.
Nel caso di specie, il Tribunale di sorveglianza di Torino, nell’interpretare in maniera letterale il termine “coniuge”, aveva escluso che la convivenza more uxorio potesse essere ostativa all’espulsione, non essendo la stessa equiparabile al vincolo matrimoniale.
L’interessato aveva comunque impugnato l’ordinanza sul rilievo che da diversi anni convivesse stabilmente con una cittadina italiana.
Nella logica decisionale della Suprema Corte hanno trovato applicazione interpretativa tutte le novità introdotte dalla Legge 76/2016 che ha riconosciuto e regolamentato (non solo le unioni tra persone dello stesso sesso) ma anche le convivenze di fatto nonché i contratti di convivenza di cui (diversamente dalle unioni civili) possono beneficiare sia eterosessuali che omossessuali.
In particolare, i giudici di legittimità hanno esteso per alcuni profili la nozione di coniuge, non solo all’unito civilmente come normato dalla Legge 76/2016, ma anche a quella di convivente laddove sia stato stipulato un contratto di convivenza registrato all’anagrafe.
Va sottolineato come per giungere a questa conclusione, la sentenza della Suprema Corte segua un percorso argomentativo che non può essere condiviso per due ordini di ragioni.
In primo luogo, l’equiparazione della nozione di coniuge a quella di convivente (anche nel caso in cui sia stato stipulato un contratto di convivenza) non è riconducibile alla finalità della Legge 76/2016. Invero, il legislatore ha tenuto ben distinte le prerogative dell’unione civile, della coppia di fatto e del contratto di convivenza, peculiarità non mutuabili dall’istituto del matrimonio se non espressamente e specificatamente richiamate della Legge 76/2016 come nel caso dell’art.1 comma 20.
Inoltre, la sentenza confonde l’unione civile con il contratto di convivenza nella parte in cui si legge che “ove nelle leggi dello Stato compaia il termine coniuge questo deve intendersi riferito alla persona civilmente unita ad un’altra con il contratto di convivenza”. Orbene, è di tutta evidenza come il contratto di convivenza possa essere stipulato tra due soggetti omosessuali o eterosessuali che abbiano preventivamente dichiarato all’anagrafe la loro convivenza di fatto senza che si possa in alcun modo applicare nemmeno per analogia l’istituto dell’Unione Civile.