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(Corte di Cassazione Civile, Prima Sezione Civile, Sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)

Nel silenzio del legislatore, la prima sezione civile Corte di Cassazione ha preso una posizione importante sul delicato tema della stepchild adoption, espressione anglofona con cui s’intende la possibilità di adozione dei figli naturali o adottivi del partner.

IL CASO

Lo ha fatto, in species, con la storica sentenza n. 12962/16, relativa al caso di una domanda di adozione di una minore da parte di una partner stabilmente convivente con la madre biologica. Un primo via libera era stato dato dal Tribunale dei minorenni di Roma, la cui pronuncia veniva successivamente confermata in appello.

Per la cassazione della sentenza ricorreva la Procura Generali Di Roma deducendo, da un lato, il potenziale conflitto di interessi tra la minore e la madre adottante, onde la necessità della nomina un curatore speciale e, dall’altro, la circostanza che la “constata impossibilità” di affidamento preadottivo richiesta dalla lettera d) dell’articolo 44 della Legge n. 184 del 1983 presuppone sempre una situazione di abbandono.

LA DECISIONE

Entrambe le censure suddette non hanno, tuttavia, incontrato favorevole sorte.

Ed invero – previo respingimento della richiesta del preliminare del Procuratore Generale di rinvio del ricorso alle Sezioni Unite per non annoverabilità della questione tra quelle «di massima di particolare importanza» – con riferimento al primo motivo di doglianza, il Supremo Collegio ha osservato che «l’appezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto di interessi, che non sia previsto normativamente in modo espresso […]e non sia ricavabile dall’interpretazione coordinata delle norme che regolano il giudizio […]è rimesso in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità».

L’ipotesi normativa di adozione in casi particolari ex 44, comma 1, lettera d), della Legge n. 184 del 1983 mira, infatti, a dare riconoscimento giuridico, previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di doveri di accudimento, di assistenza, di cura e di educazione analoghi a quelli genitoriali. La ratio dell’istituto è, dunque, quella di consolidare, ove ricorrano le rigorose condizioni dettate dalle legge, legami preesistenti e di evitare che si protraggano situazioni di fatto prive di uno statuto giuridico adeguato.

All’interno di tale paradigma «non può ravvisarsi una situazione di incompatibilità di interessi in re ipsa, desumibile cioè dal modello adottivo astratto, tra il genitore-legale rappresentante ed il minore adottato».

Una tale situazione – spiegano gli Ermellini – potrebbe semmai configurarsi in concreto, nel corso del procedimento, ove espressamente dedotta; nella specie, la Corte d’appello, con motivazione logicamente coerente, avulsa da qualsiasi violazione di legge, aveva peraltro escluso una situazione di conflitto d’interessi tra la minore e la madre, tale da imporre la nomina di un curatore speciale.

Peraltro, l’unica ragione posta a sostegno della denunciata incompatibilità di interessi – scrivono i giudici di piazza Cavour in relazione al ricorso presentato dalla Procura generale di Roma – è stata individuata nell’interesse personale della madre della minore al consolidamento giuridico del proprio progetto di vita relazionale e genitoriale con la compagna.

Sul punto, la Corte laconicamente osserva che «o si ritiene che sia proprio la relazione sottostante (coppia omoaffettiva) ad essere potenzialmente contrastante, in re ipsa con l’interesse della minore, incorrendo però in una inammissibile valutazione negativa fondata esclusivamente e comunque priva di  qualsiasi allegazione e fondamento probatorio specifico; oppure si deve escludere tout court la configurabilità in via generale e astratta di una situazione di conflitto».

Ciò in quanto l’apprezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto d’interessi, che non sia previsto normativamente in modo espresso o non sia ricavabile dall’interpretazione coordinata delle norme che regolano il giudizio), è rimesso in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità.

Venendo poi all’esame del secondo motivo di ricorso, la Cassazione focalizza la propria indagine sul contenuto da attribuire alla disposizione “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, condizione questa – in cui deve trovarsi il minore adottando – indispensabile per l’applicazione della fattispecie di adozione disciplinata dall’articolo 44 lettera d)  Legge n. 184 del 1983.

Previa analitica disamina della norma sopra citata e della sua evoluzione normativa ed applicativa, alla luce, in particolare, della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Strasburgo, il Supremo Collegio giunge ad affermare che la “constata impossibilità” di procedere all’affidamento preadottivo deve essere intesa – contrariamente alla restrittiva prospettazione della Procura – anche in senso giuridico e non solo fattuale.

Ed invero, sostenere che, per integrare la condizione della «constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo», debba sempre sussistere la situazione di abbandono «oltreché contrastare con l’articolo 44, comma 1 – nella parte in cui ne esclude la necessità per tutte le ipotesi descritte dalla norma, senza distinzione tra le singole fattispecie, come invece si riscontra nel terzo comma dell’articolo 44 relativamente agli altri requisiti relativi all’età o all’insussistenza dello status coniugale – condurrebbe sempre ad escludere che, nell’ipotesi di cui alla lettera d), l’adozione possa conseguire ad una relazione già instaurata e consolidata con il minore, essendo tale condizione relazionale contrastante con l’accertamento di una situazione di abbandono così come descritta nel citato articolo 8, comma 1, della Legge n. 184 del 1983».

In sintonia con l’odierno quadro costituzionale e convenzionale, occorre, quindi, ricomprendere nella formula in questione anche l’impossibilità “di diritto”, e con essa «tutte le ipotesi in cui, pur in difetto dello stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti, che se ne prendano cura».

Sulla scorta di queste argomentazioni, la Suprema Corte ha ritenuto di applicare i principi sopra enucleati anche al caso – come quello di specie – di coppia omogenitoriale, relativo, quindi, ad un rapporto giuridicamente non riconosciuto.

Ed invero, conclude la Corte di Piazza Cavour, «poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’articolo 44 lettera d) possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto, l’esame de requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia  in  astratto (“la  constatata  impossibilità  di affidamento preadottivo”), sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dalla legge) non può essere svolto –  neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner».Studio Legale Civitavecchia

Fonte: Filo Diritto

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