Nella roboante fluttuazione di dottrina e giurisprudenza nel genus responsabilità medica, assume particolare rilevanza e singolare fragore la species del danno così detto perdita di chance. Etimologicamente il proprio significato chance deriva dal termine latino cadentia che indica la “buona possibilità di riuscire in qualcosa”. La Giurisprudenza nelle sue origini si attiene in maniera scrupolosa a tale etimologia ma nel suo evolversi giunge ad una visione autonoma, sia in via oggettiva che oggettiva.
Dall’etimologia nasce, una prima linea di pensiero, che intendeva la perdita di chance quale danno emergente, derivante dallo svanire di una possibilità, concreta ed effettiva (non ideale ed ipotetica) di raggiungimento di un determinato fine, ed il risarcimento altro non doveva intendersi che la monetizzazione di quel che poteva ottenersi e ch’era svanito. Successivamente incedeva la tesi ontologica che faceva assurgere la chance a bene giuridico autonomo (parte del patrimonio soggettivo) e la cui lesione concretizzava l’effettiva perdita patrimoniale di qualcosa che si sarebbe potuto raggiungere. Tale ultima tesi è poi, definitivamente, fatta propria dalla Suprema Corte, la quale a fondamento evidenzia come “… quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probalistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale vantaggio….” (Cass. 14.06.2011 n. 12961) Il caso riguardava l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale che aveva determinato la tardiva esecuzione dell’intervento chirurgico e di conseguenza l’esito definitivo di detto processo, verificatosi anzitempo, e, quindi, la perdita da parte del paziente della pssibilità di conservare durante quel decorso una migliore qualità della vita nonché la chance di poter allungare la propria vita rispetto all’effettivo vissuto. La Suprema Corte individua il danno patito nella possibilità di conseguire un risultato utile e/o migliore, ed addebita all’errore del medico, con probabile certezza (più probabilmente che non), la perdita di un ulteriore periodo di vita decoroso e vivibile.
E bene, detto del concetto di perdita di chance in senso generale, addentriamoci ora nella specificità della perdita di chance a causa di errore medico. Sul punto specifico la Corte Cassazione sposa la tesi ontologica, riconoscendo la risarcibilità autonoma della perdita di chance medica, ed individuando l’autonomo danno nell’errata diagnosi di un processo morboso terminale, che porta con notevole ritardo ad un intervento chirurgico, che quantunque pacificamente riconosciuto, ultroneo per fini curativi, avrebbe garantito al paziente la possibilità di un dignitoso e decoroso sviluppo della qualità della vita nel suo ultimo periodo di vita, includendo in ciò anche la possibilità o meno di garantirsi un maggior lasso di tempo di vita, nelle condizioni dallo stesso desiderate. Tra tutte potrà assurgesi ad esemplare la Sentenza della III sezione n. 7195 del 27/03/2014. La logica evoluzione del primordiale pensiero, per come recepito anche nella esemplare sentenza sopra menzionata, ha prodotto anche il riconoscimento del diritto a cure pagliative, terapie del dolore, e/o di altra natura. Nei fatti, assurge a rilevanza giuridacamente valutabile e quantificabile, tutto ciò che riveste rilevanza per il paziente al fine di garantire la sua incondizionabile volontà. Nelle pieghe di tale pronuncia la Cassazione individua il diritto del malato alle proprie chances quale intermedio ed autonomo diritto, se vogliamo mediano tra quello alla vita e quello alla salute. Ex plurimis, in tal senso si veda la sentenza 21619/2007 che riconosce la perdita di chance anche nella mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, e lo intende come la perdita della possibilità di conseguirlo, intendendo l’aspettativa della guarigione da parte del paziente come “bene” differente ed autonomo rispetto alla salute. A suffraggio della autonomia del bene protetto dalla perdita di chance si legga anche la pronuncia della Suprema Corte n. 21254/2012 ove si afferma che “… la chance …. non è una mera aspettativa di fatto, ma una entità patrimoniale a se stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale: pertanto, è necessario che la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza venga espressamente formulata, non essendo sufficiente la richiesta generica del risarcimento di tutti i danni derivanti dalla morte.
La recente sentenza n. 16993 del 20 agosto 2015 sembra assolvere al compito di riassumere le statuizioni della Giurisprudenza ad oggi sviluppate in merito alla perdita di chance in ambito medico, ed in tal senso porta per mano il lettore esplicando il pensiero giurisprudenziale afferente tale sfaccettatura giuridica. Prende le mosse dall’inquadrare il dovere del professionista e dello specialista in particolare. Sul professionista, contrariamente ad altre figure, incombe un rilevante onere debitorio, amplificato, poi, in capo allo specialista, il quale, a maggior ragione, anche in relazione alla specificità per la sua preparazione di nicchia, deve assolvere con doviziosa dedizione e cura l’incarico conferitogli. Pertanto la diligenza particolarmente richiesta allo specialista, che si avvale anche di apparecchiature mediche e di ricerca specifiche, non può ammettere e giustificare che non si avveda di una patologia sia pur differente ed autonoma rispetto a quella per la quale svolge indagini. Nel caso di specie si trattava di un ginecologo che non si avvede nel corso di svariati mesi (6) della esistenza di un carcinoma. Nel suo sintetizzare il proprio pensiero la Corte conferma, come da pregresse pronunce che l’omissione della diagnosi acquisisce rilevanza anche allorquando l’eventuale intervento chirurgico abbia solo caratteristiche “palliative”, intendendosi con ciò, comunque l’esclusione della possibilità che il prefato intervento chirurgico salvi la vita al paziente. Puntualizza, come, l’omessa diagnosi sia causa del danno, individuato nella impossibilità di fruire dell’intervento. A questo punto la Corte individua la perdita di chance in due alternative e complementari circostanze: sia nella possibilità di un ulteriore, sia pur minimo lasso di tempo in più da vivere, sia nella inibita migliore qualità della vita nel periodo tra la possibile individuazione della malattia ed il decesso del paziente, anche alla luce della considerazione che il dolore prevale ed affligge il paziente, e la cui sofferenza va remunerata. D’altronde l’intervento palliativo pur non risolvendo il problema avrebbe, almeno, riverberato i suoi effetti sulla qualità della vita nella malattia. Peraltro, la Cassazione, già con la pronuncia n. 23846 del 18/09/2008 aveva precisato come danno valutabile di risarcimento sia la mancata conoscenza stessa della malattia che inibisce, di fatto, al paziente la possibilità di ricorrere o meno alle cure, limitando di fatto la libertà e volontà del paziente di scegliere come vivere il periodo di malattia. La sentenza della Corte d’Appello di Palermo, quivi impugnata, aveva disatteso tali criteri e, spalleggiata da una fuorviante Consulenza Tecnica d’ufficio, affermava come non ricorresse diritto al risarcimento poiché l’intervento chirurgico non avrebbe evitato l’infausto evento finale. Nello specifico per il danno da perdita di chance la Cassazione afferma come la Corte si sia espressa erroneamente non riconoscendo tale danno sol perché l’eventuale intervento chirurgico avrebbe rivestito carattere palliativo e non risolutivo della condizione medica. Rinnova, poi, la Corte i concetti sopra riferiti per i quali il paziente ha anche il diritto sia di vivere qualche giorno in più, sia di vivere al meglio il periodo residuale di vita, sancendo personalmente se perseguire iter medico-clinici di guarigione, sia quali tra quelli eventualmente possibili seguire. Da tanto la Corte d’appello erroneamente nega il ristoro per il danno iure hereditatis avanzato per i fatti di causa. A sgomberare il campo da ogni equivoco la Corte afferma anche che nemmeno la mancata proposizione autonoma della domanda di perdita di chance sia tale da giustificare il mancato accoglimento. Sul punto la Corte, chiudendo il cerchio conferma, nel solco delle sentenze di San Martino n. 26772 e 26773 dell’11/11/2008 come per certo vada riconosciuto e risarcito il danno che la Corte d’appello ignora, includendolo nel danno morale terminale, detto anche da lucida agonia. Il risarcimento per detto danno deve essere rapportato alla sofferenza patita nel comprendere consapevolmente e lucidamente attendere il nefasto evento finale, ed è da annoverarsi nel danno morale terminale, danno patito dalla vittima “…. per la sofferenza provata nel consapevole avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine….” come recita la sentenza 16993/2015. Il solo parametro valutativo per la liquidazione, stante tale presupposto, è la sofferenza provata prescindendo dall’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso (funzionale questo solo alla liquidazione del danno biologico terminale) che ovviamente, al momento, il Legislatore non ha inquadrato e quantificato in maniera tabellare come per altri danni. Per concludere, non pare al deducente, lungi dal volere indicare facili panacee, auspicabile un intervento del Legislatore atteso che solo il polso e la valutazione equitativa del Giudicante, che discende nei meandri della sofferenza pel tramite della istruzione probatoria, può avere contezza ed opportuna conoscenza per poter valutare la sofferenza ed equitativamente liquidarla riconoscendo di tal guisa il danno per la sofferenza patita nel vedere avvicinarsi il momento del distacco dagli effetti più cari.
Fonte: Overlex.com
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