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Cassazione Civile, sez. I, sentenza 29/03/2016 n° 6045

La sentenza in commento, pronunciata dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione in data 29/03/2016, fornisce l’occasione per operare riflessioni, di non poco momento, circa l’ambito di operatività degli articoli 66, 67 e 69-bis (quest’ultimo “in appendice”) del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (meglio noto come: “Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa”).

Come premessa generale va messo in evidenza che, ai sensi degli articoli 1, primo comma, e 5 della Legge Fallimentare: “… sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici …”, visto e considerato che: “… l’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza è dichiarato fallito …”, poiché si verificano: “… inadempimenti od altri fatti esteriori …” i quali dimostrano “… che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni …” (fatte, ovviamente, salve le ipotesi, contemplate all’articolo 2221 c.c. (con riferimento agli enti pubblici ed ai piccoli imprenditori ed all’operatività delle leggi speciali).

Ciò premesso, si può pacificamente affermare che va considerata giuridicamente ineccepibile la decisione del Tribunale di Teramo, cristallizzata con sentenza 19/04/2010 (accolta integralmente dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento), circa il rigetto dell’opposizione presentata da un istituto di credito avverso lo stato passivo del fallimento di una società dichiarato in consecuzione di un concordato  preventivo.

In altre parole, i Giudici del Supremo Consesso hanno rilevato che, secondo i Giudici del Tribunale di Teramo, la ratio dell’esclusione del rango ipotecario vantato dall’istante trova fondamento nel dato oggettivo che, trattandosi nella specie, dell’operatività di un “meccanismo” di “consecuzione di procedure” il termine a ritroso per l’esercizio dell’azione revocatoria “… dovesse decorrere dalla prima, non essendo le procedura distinguibili in ragione dello stato di insolvenza quanto piuttosto in relazione al giudizio di reversibilità o meno della crisi dell’impresa … “.

Ne deriva, come sottolineato dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, che, secondo il plesso giudiziario di merito precedentemente indicato, muovendo dal principio di consecuzione “… anche l’entità di quel termine … doveva esser riferita alla norma vigente alla data di ammissione al concordato  – 10 – 10- 1996 – rispetto alle quali le ipoteche, iscritte il  27 -11-1995, non si erano consolidate …”.

Tale iter argomentativo non risulta, di conseguenza, censurabile e quindi passibile di ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’articolo 360, primo comma, punto n.º 3, c.p.c., in quanto non rappresenta altro che l’applicazione, in sede processuale, del principio coniato dal legislatore all’articolo 67, primo comma, punto n. 4 (primo capoverso) e secondo comma, lett. e), laddove si afferma che:“… sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore … i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costruiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti …”, nonché “… gli atti, i pagamenti e le garanzie poste in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché all’accordo, omologato ai sensi dell’articolo 182- bis, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 161 …”.

Alla stregua dei riferimenti normativi sopra riportati, posti a fondamento dell’iter argomentativo sviluppato dal Tribunale di Teramo ed avallato dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, va considerata giuridicamente “inattaccabile” la decisione adottata dal Supremo Consesso di ritenere irrilevante la tesi sostenuta dalla difesa dell’istituto bancario, finalizzata a dimostrare che: ” … una volta dichiarato il fallimento in vigenza del novellato art. 67, il periodo sospetto rilevante in relazione agli atti compiuti antea rispetto al concordato preventivo dovevasi considerare quello di sei mesi, sicchè l’ipoteca, iscritta il 27 – 11 – 1995, avrebbe dovuto ritenersi consolidata a ogni effetto, e il relativo credito ammesso col grado ipotecario …”, a nulla rilevando, inoltre, il fatto che il Tribunale di Teramo avesse “deciso l’opposizione al passivo con sentenza, anziché con decreto”, non costituendo la violazione formale motivo di “nullità del provvedimento”.

Ne deriva, secondo i Giudici della Corte di Cassazione, che si riscontra, sia nel nuovo che nel vecchio regime della legge fallimentare “… una identità di presupposto soggettivo (l’insolvenza) in entrambe le procedure, e una comunanza anche di tipo funzionale identificabile nell’essere entrambe volte al soddisfacimento delle ragioni dei creditori …”, visto e considerato che ” … da più parti veniva affermato che la dichiarazione di fallimento poteva venire in rilievo quale mero accertamento di un dissesto suscettibile di saldarsi alla eguale situazione già presupposta nella procedura anteriore, così da legittimare la decorrenza del periodo sospetto a ritroso dalla data di ammissione al concordato …”.

In altri termini, i Giudici della Supremo Consesso sostengono, in piena sintonia con il Tribunale di Teramo, quanto segue: premesso che l’art. 2, 1 comma, lett. a) del D.L. 35/2005, conv. in L.80/2005 (“forgiato” sulla base delle evoluzioni inerenti alla disciplina concorsuale vigente nei principali paesi Europei), ha dimezzato il periodo sospetto per l’esercizio dell’azione revocatoria fissandolo in anno o sei mesi a seconda del tipo di atto interessato (quanto alle ipoteche giudiziali o volontarie, il periodo di riferimento è stato fissato in sei mesi), va osservato che le nuove disposizioni si applicano, ai sensi dell’articolo 2, 2 comma del D.L. n. 35/2005, conv. in L. 80/2005, alle azioni revocatorie “proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo l’entrata in vigore” del D.L. 267/1942, ossia facendo riferimento alla “data di apertura del concordato”, laddove, in base al principio di consecuzione, il fallimento consegua al concordato preventivo.

Così argomentando e procedendo, il “termine sospetto” viene a decorrere “a ritroso dalla prima procedura”, dovendo, di conseguenza, essere individuato “in base alla norma in vigore al tempo di essa”.

Ciò non mette in discussione, anzi conferma che, nella procedura fallimentare, secondo il disposto dell’art. 66 L. F., il curatore può esercitare anche l’azione revocatoria ordinaria, chiedendo che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori secondo le norme del codice civile (articoli da 2901 a 2904c.c.).

Ciò è possibile, in quanto l’azione è comunque sottoposta alla “vis attractiva” del tribunale fallimentare, “sia in confronto del contraente immediato; sia in confronto dei suoi aventi causa nei casi in cui sia proponibile contro costoro” (art. 66, secondo comma, L.F.).

Considerata tutta la maggiore onerosità probatoria di tale tipo di azione, dovendo essere dimostrata la ricorrenza dei presupposti e l’eventus damni (Cass. 26331/2008), la revocatoria ordinaria finisce per essere residuale rispetto a quella fallimentare, ovvero esperita in subordine a questa.

Laddove, invece, la revocatoria ordinaria sia stata proposta da un creditore prima del fallimento, il curatore vi può subentrare (Cass. n. 8984/2011) ed il creditore va estromesso, a pena di improcedibilità dell’azione (Cass. n. 29420/2008).

Ciò evidenziato e ritornando al caso in esame, si può pacificamente affermare che sia i Giudici del Tribunale di Teramo che quelli della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione sostengono la tesi di fondo secondo la quale: “… nell’azione revocatoria ordinaria il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore consiste nella insufficienza dei beni del debitore ad offrire la garanzia patrimoniale, essendo irrilevante una mera diminuzione di detta garanzia …” , mentre, va considerato rilevante “… ogni aggravamento della già esistente insufficienza dei beni del debitore ad assicurare la garanzia patrimoniale …” (Principio affermato dalla SC. Con riguardo alla costituzione in pegno, da parte di una società già in crisi, delle quote di partecipazione in altra società, a garanzia di preesistenti debiti del gruppo verso il creditore, con conseguente vincolo di indisponibilità pressoché definitivo di parte determinante dall’attivo e contributo causale al proprio fallimento) (Cass. Civ, sez. III, 4 settembre 2009, n. 19234).

Ciò implica che: “… l’azione revocatoria ordinaria presuppone, per la sua esperibilità, la sola esistenza di un debito, e non anche la sua concreta esigibilità … in base al solo requisito soggettivo della consapevolezza di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore (“scientia damni”) e al solo fattore oggettivo dell’avvenuto accreditamento …”, in quanto “… l’insorgenza del credito va infatti apprezzata con riferimento al momento dell’accreditamento e non a quello, eventualmente successivo, dell’effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma a sua disposizione …” (Cass. Civ., sez. III, 4 dicembre 2009, n. 25556).

Tale conclusione viene maggiormente avvalorata, nel caso di specie, dal fatto che le procedure fallimentari si sono svolte in consecuzione, in quanto “originate da un medesimo unico presupposto, costituito dallo stato d’insolvenza” (Sez. I, n. 5527/2006, n. 21236/2005, n. 17844/2002; orientamento costante fin dalla remota Sez. I, n. 3981/1956), il quale va già posto “a fondamento dell’ammissione al concordato preventivo” (Sez. I, n. 8439/2012; n. 18437/2010) e quindi dalla “data di pubblicazione della domanda” del medesimo, nel registro delle imprese, va riferita l’operatività alla disciplina delle revocatorie (v. art. 33, 1 comma, lett. a – bis, n. 2) del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012 – articolo 69 – bis, secondo comma, L.F.).

Tale iter argomentativo risulta tranquillamente estensibile all’operatività dell’istituto della revocatoria fallimentare, visto e considerato che quest’ultimo rappresenta lo strumento “complementare ed alternativo” rispetto all’azione revocatoria ordinaria, finalizzato a ricostruire il patrimonio del fallito, andando ad incidere privandoli di effetti, sugli atti dello stesso posti in essere nel periodo antecedente alla dichiarazione del fallimento, in violazione del principio della par condicio creditorum.

Questo ultimo istituto ha subito rilevanti modifiche ad opera delle diverse novelle legislative (cfr. d.l. n. 35/2005; d.l. n. 5/2006; d.l. n.169/2007; d.l. n. 83/2012 conv. in L. 134/2012 ecc.) che, al fine di contemperare l’esigenza di salvaguardia dal depauperamento il patrimonio del fallito, destinato alla soddisfazione dei creditori, e di evitare una spinta all’aggravamento della situazione di crisi dell’impresa, per via del ritiro del sostegno dei creditori intimoriti dagli effetti di un’eventuale azione revocatoria, hanno sostanzialmente dimezzato, per determinati atti, il cd. “periodo sospetto”, ovvero il periodo di operatività dell’azione revocatoria ed introdotto una  serie di esenzioni (elencate all’articolo 67,terzo comma e quarto ( con specifico riferimento, per tale ultimo comma, alle esenzioni relative all’istituto di emissione e per le operazioni di credito, su pegno e fondiario, salvo quanto previsto dalle leggi speciali ) della Legge Fallimentare) rispetto agli atti alla stessa soggetti.

In virtù della suindicata “fungibilità” (anche se “in via residuale”) tra azione revocatoria ordinaria ed azione revocatoria fallimentare, risulta, infine, indispensabile, per fini di completezza, operare alcune riflessioni circa l’ambito di operatività dell’articolo 69 – bis L.F.

Tale ultima analisi va operata, con riferimento all’elemento dell’esercizio delle azioni revocatorie dalla data di pubblicazione della domanda di concordato preventivo nel registro delle imprese, quale anticamera della dichiarazione di fallimento.

In proposito, non residua alcun dubbio che l’operatività dell’articolo 69 – bis L.F., incida sui termini della proponibilità dell’azione anzidetta, ma ciò non esclude che, a seguito della sopravvenienza del fallimento del debitore dopo la preposizione della revocatoria, il creditore individuale possa proseguire il giudizio o possa delegare il curatore a fargli da sostituto processuale della massa dei creditori, “… ben potendo le due azioni concorrere, restando il creditore legittimato a proseguire la sua azione raccordandola, eventualmente, a quella della massa …” (Cass.civ., sez. IIIº, 19 maggio 2006, n.º 10909).

Fonte: Altalex 

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